giovedì 2 gennaio 2014

Verso la scuola dei beni comuni: la democrazia deliberante, contributo per un dibattito.

Quelle che seguono sono considerazioni sparse, appunti per un dibattito, domande e dubbi in ordine sparso, emersi mentre riflettevo sul prossimo incontro a Santorso per la Scuola dei Beni Comuni.
Del resto una scuola dovrebbe essere questo: un luogo ove porre domande... e a volte trovare risposte.

Guardando la mappa dei luoghi dove la democrazia deliberante trova spazio, o meglio, dove noi siamo stati capaci di riconoscere forme di democrazia locale deliberante, colpisce l’assenza di bandierine in gran parte del globo.

Al di là dei segnaluoghi italiani, dove troviamo prevalentemente iniziative basate sulla buona volontà politica di amministratori “illuminati”, nel resto della mappa mondo non riusciamo a trovare esempi illuminanti (il che non significa che non ce ne siano, ovviamente).

L’unica eccezione sembra essere l’esperienza del Chiapas, dove la democrazia deliberante è realmente una forma di autogoverno locale, costantemente minacciata dal potere statale centrale e difesa dalla resistenza dalla comunità Zapatista locale e dal sostegno di quella internazionale conquistato giorno dopo giorno grazie alla credibilità messa in campo dal movimento Zapatista.

Proprio guardando a questa esperienza non possiamo non chiederci, parlando di democrazia deliberante, fino dove ci si vuole spingere e quale e quanto potere si vuole redistribuire.

Può la democrazia deliberante realizzarsi all’ombra di un potere centrale (nazionale o regionale) oppure può arrivare solo a decidere su temi locali delegando ad altri poteri, le decisioni di carattere più ampio?
Può esistere una democrazia locale vera senza un cambio di sistema economico, senza un cambiamento culturale?
Può una forma di democrazia che ha bisogno dei tempi necessari al dibattito, esistere nei luoghi della fretta e del consumo, dove il tempo è un lusso e l’unico modo di averne da dedicare alla politica è “per mestiere” o per “volontariato”?

E ancora: chi decide e in quale modo?
L’ affermazione più corretta sembrerebbe: “decide chi partecipa”.
Ma, se decide chi partecipa, allora la presenza anche casuale di qualcuno al momento della decisione può orientare la stessa in un senso o nell’altro, anche senza che il soggetto abbia precedentemente partecipato al dibattito e, d’altro canto, se invece si creano organizzazioni codificate, si rischia di replicare l’esistente democrazia rappresentativa col solo risultato di rallentare l’efficienza dell’amministrazione.

Ancora: se, poniamo il caso, un’assemblea deliberante decide a favore o contro una certa iniziativa, qual’ è il vincolo che (nell’attuale situazione italiana) essa pone a chi poi, per legge (ad esempio un Consiglio Comunale), deve ratificare la decisione presa?
Quale è la garanzia che ciò avverrà e quale Amministrazione si assumerà la responsabilità (anche legale) di ratificare qualcosa deciso fuori dalle sedi istituzionali canoniche?.

Sembra evidente che, ammesso che un modo esista per realizzare la Democrazia Deliberante (mi sovvengono le decisioni prese per alzata di mano nelle piazze delle città di alcuni cantoni svizzeri) essa necessita di risorse economiche, di tempo, di partecipazione.

Il Chiapas fa scuola perché è uscito dalla logica capitalista-centralista dandosi una forma di autogoverno completamente diversa da tutte le precedenti.

La lezione che ne traggo è che la redistribuzione del potere decisionale passa necessariamente attraverso la comunità.
Essa deve essere sufficientemente piccola per permettere uno scambio reale di informazioni e idee. Deve essere al contempo sufficientemente grande per poter realizzare “in proprio” percorsi e iniziative che richiedono impegno economico, intellettivo, lavorativo.

Una sfida non da poco.

Lanfranco Tarabini

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